Cappella "Casa di S. Marta"
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n. 238, 10/12/2016)
Papa Francesco ha idealmente consegnato ai seminaristi di Roma le icone di san Policarpo, san Francesco Saverio e di san Paolo mentre sta per essere decapitato, raccomandando loro di vivere il sacerdozio come autentici mediatori tra Dio e il popolo, gioiosi anche sulla croce, e non come funzionari intermediari, rigidi e mondani, attenti solo ai propri interessi e per questo insoddisfatti. È questo il profilo autentico del sacerdote tratteggiato dal Pontefice nella messa celebrata venerdì mattina 9 dicembre nella cappella della Casa Santa Marta.
«Il Signore ha sofferto tanto per l’atteggiamento del popolo e alcune volte ha detto: “Fino a quando devo sopportarvi?”» ha affermato Francesco nell’omelia. Facendo subito notare come nel passo del vangelo di Matteo (11, 16-19) proposto dalla liturgia, Gesù fa questo commento: «sono come bambini a cui tu offri una cosa e a loro non piace; offri il contrario» ma non piace neppure quello. Persone insoddisfatte, insomma, «incapaci di avere una soddisfazione nell’atteggiamento col Signore». Ma «ci sono tanti cristiani insoddisfatti — ha messo in guardia il Papa — che non riescono a capire cosa il Signore ci ha insegnato; non riescono a capire il nocciolo proprio della rivelazione del Vangelo».
Rivolgendosi direttamente alla comunità del Pontificio seminario romano maggiore, «ai seminaristi e ai formatori», Francesco ha posto la questione se «ci sono anche preti insoddisfatti». Perché — ha riconosciuto — «ce ne sono e fanno tanto male quando vivono una vita non piena; non trovano pace da una parte, dall’altra, sempre pensando a progetti e poi quando li hanno in mano» dicono: «No, non mi piace!». Tutto questo, ha aggiunto il Papa, «perché il loro cuore è lontano dalla logica di Gesù e per questo ci sono alcuni sacerdoti insoddisfatti, non sono felici, si lamentano e vivono tristi».
Ma «qual è la logica di Gesù che dà la piena soddisfazione a un sacerdote?» si è domandato il Pontefice, suggerendo subito la risposta: è «la logica del mediatore». Gesù «è il mediatore fra Dio e noi; e noi dobbiamo prendere questa strada di mediatori e non l’altra figura che assomiglia tanto ma non è la stessa: intermediari». Perché, ha affermato il Papa, c’è «differenza fra un mediatore e un intermediario». Infatti «l’intermediario fa il suo lavoro e prende la paga: tu vuoi vendere questa casa, tu vuoi comprare una casa, io faccio l’intermediario e prendo una percentuale; è giusto, è stato il mio lavoro». Insomma «l’intermediario segue questa strada: lui non perde mai».
«Il mediatore invece — ha spiegato Francesco — perde sé stesso per unire le parti, dà la vita, sé stesso, il prezzo è quello: la propria vita, paga con la propria vita, la propria stanchezza, il proprio lavoro, tante cose». E «il parroco», ha aggiunto il Papa, dà la vita proprio «per unire il gregge, per unire la gente, per portarla a Gesù». Perché «la logica di Gesù come mediatore è la logica di annientare sé stesso». Del resto, «san Paolo nella lettera ai Filippesi è chiaro su questo: “Annientò sé stesso, svuotò sé stesso” per fare questa unione, fino alla morte», e alla «morte di croce».
Questa, dunque, «è la logica: svuotarsi, annientarsi». E «non perché tu cerchi questo, ma l’atteggiamento di mediatore ti porta a questo». È lo stile della «vicinanza: Dio che si è fatto vicino al suo popolo, nell’Antico testamento, e poi inviando il suo Figlio, quellasynkatàbasis di Dio che si è avvicinato a noi». Ecco perché «il sacerdote è un mediatore molto vicino al suo popolo, molto vicino».
L’intermediario invece, ha precisato il Papa, «è quello che è un funzionario: fa il suo mestiere, fa le cose più o meno bene e poi finisce quel lavoro e ne prende un altro, un altro, un altro, ma sempre come funzionario». L’intermediario «non sa cosa significhi sporcarsi le mani; il mediatore vive sporcandosi perché è in mezzo, lì nella realtà, come Gesù: sporcato dai nostri peccati». Ecco perché, ha confidato Francesco, «io non conosco alcun uomo, alcuna donna che lavori da intermediario e che soltanto con quello sia felice. No, quello non ti fa felice». Per questo motivo, «quando il sacerdote cambia da mediatore a intermediario non è felice, è triste». Finendo così per cercare «un po’ la felicità nel farsi vedere, nel far sentire l’autorità».
Il brano evangelico della liturgia, ha fatto notare il Pontefice, rivela che «agli intermediari del suo tempo Gesù diceva che piaceva loro passeggiare per le piazze perché la gente li vedesse e li onorasse: è così». Ma «per rendersi importanti, i sacerdoti intermediari prendono la via della rigidità: tante volte, staccati dalla gente, non sanno che cos’è il dolore umano; perdono quello che avevano imparato a casa loro, col lavoro del papà, della mamma, del nonno, della nonna, dei fratelli». Perdendo «queste cose, sono rigidi, quei rigidi che caricano sui fedeli tante cose che loro non portano, come diceva Gesù agli intermediari del suo tempo».
«La rigidità», insomma, significa «frusta in mano col popolo di Dio: “questo non si può, questo non si può”». E «tanta gente che si avvicina cercando un po’ di consolazione, un po’ di comprensione, viene allontanata con questa rigidità». Ma «la rigidità non si può mantenere tanto tempo, totalmente». Oltretutto «fondamentalmente è schizoide: finirai per apparire rigido ma dentro sarai un disastro».
E «con la rigidità» c’è pure «la mondanità». Così «un sacerdote mondano, rigido, è uno insoddisfatto perché ha preso la strada sbagliata». Proprio «a proposito di rigidità e mondanità», Francesco ha voluto far riferimento a un episodio, «successo tempo fa: è venuto da me un anziano monsignore della curia, che lavora, un uomo normale, un uomo buono, innamorato di Gesù, e mi ha raccontato che era andato all’Euroclero a comprarsi un paio di camicie e ha visto davanti allo specchio un ragazzo — lui pensa non avesse più di venticinque anni, o prete giovane o che stava per diventare prete — davanti allo specchio, con un mantello, grande, largo, col velluto, la catena d’argento, e si guardava. E poi ha preso il “saturno”, l’ha messo e si guardava: un rigido mondano». E «quel sacerdote — è saggio quel monsignore, molto saggio — è riuscito a superare il dolore con una battuta di sano umorismo e ha aggiunto: “e poi si dice che la Chiesa non permette il sacerdozio alle donne!”». È così «che il mestiere che fa il sacerdote quando diventa funzionario finisce nel ridicolo, sempre».
«Nell’esame di coscienza — ha detto Francesco rivolgendosi direttamente alla comunità seminaristica — considerate questo: oggi sono stato funzionario o mediatore? Ho custodito me stesso, ho cercato me stesso, la mia comodità, il mio ordine o ho lasciato che la giornata andasse al servizio degli altri?».
L’atteggiamento giusto, ha suggerito, è quello di tenere sempre «la porta aperta» e sorridere: «pur con tante difficoltà, il mediatore sorride, è tenero, il mediatore ha tenerezza, sa accarezzare un bambino». Tanto che, ha aggiunto il Papa, «una volta uno mi diceva che lui riconosceva i sacerdoti dall’atteggiamento con i bambini: se sanno accarezzare un bambino, sorridere a un bambino, giocare con un bambino». Ed è un fatto «interessante, perché significa che sanno abbassarsi, avvicinarsi alle piccole cose», come è appunto «il bambino».
Invece, ha avvertito il Pontefice, «l’intermediario è triste, sempre con quella faccia triste o troppo seria, scura; l’intermediario ha lo sguardo scuro, molto scuro». Al contrario «il mediatore è aperto: il sorriso, l’accoglienza, la comprensione, le carezze e in mezzo alle difficoltà ha la gioia». Perché «il mediatore è uno gioioso anche sulla croce». A questo proposito Francesco ha indicato la testimonianza di sant’Alberto Hurtado «che, con tante difficoltà e persecuzioni che aveva, pregava solamente così, contento: “Signore!”». Era «contento, contento, felice di essere un mediatore, in quella situazione».
Ai seminaristi il Papa ha confidato il suo desiderio di consegnare loro, proprio «guardando questi insoddisfatti» descritti nel vangelo di Matteo, «questa riflessione sui sacerdoti insoddisfatti». E «voi pensateci», ha raccomandato.
In questa prospettiva il Pontefice ha voluto indicare, prendendole «dalla storia della Chiesa, tre icone che ci aiuteranno: tre icone di sacerdoti mediatori e non intermediari». La prima icona è quella del «grande Policarpo, la versione neotestamentaria di Eleazaro: anziano, degno, signore di sé stesso, che non negozia la sua vocazione e va coraggioso alla pira, e quando il fuoco viene intorno a lui, i fedeli che erano lì hanno sentito l’odore del pane». Infatti davvero «lui era come un pane, fino alla fine ha dato sé stesso». E «così finisce un mediatore: come un pezzo di pane per i suoi fedeli».
E se nella prima icona è raffigurato «un vecchio», nella seconda ecco «un giovane: san Francesco Saverio», che «muore sulla spiaggia di San-cian, guardando la Cina, a quarantasei anni». Così giovane, appunto, che si potrebbe persino dire «uno spreco», fino a domandarci perché «il Signore non lo ha lasciato ancora lì». Ma l’atteggiamento di san Francesco Saverio è quello di dire: «Si faccia la tua volontà, Signore». Egli «sa dirgli soltanto: “Ho confessato il tuo nome fino alla fine; mai, Signore, ho nascosto la lampada sotto il letto; mi hai dato cinque talenti, te ne ridò altri cinque”». E in questo modo «in pace, nella gioia, se ne va». Così «finisce anche un giovane mediatore che mai ha conosciuto queste insoddisfazioni».
Come terza icona, «pure tanto bella e che fa piangere», il Papa ha indicato quella dell’«anziano Paolo alle Tre Fontane: quella mattina, presto, i soldati sono andati da lui, l’hanno preso, e lui camminava incurvato, come con un peso sulle spalle». Paolo, ha spiegato Francesco, «sapeva benissimo che questo accadeva per il tradimento di alcuni all’interno della comunità cristiana: ma lui ha lottato tanto nella sua vita che si offre al Signore come un sacrificio». E «finisce così». Il Papa ha confidato di provare «tanta tenerezza» nel «guardare Paolo da dietro, come va camminando fino al momento della decapitazione».
Sono «tre icone che possono aiutarci» ha concluso il Pontefice, invitando a guardarle e a pensare a «come voglio finire la mia vita di sacerdote: come funzionario, come intermediario o come mediatore, cioè in croce».
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